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sabato 23 maggio 2015

Cara me, ti scrivo…(storia di una donna malata di Alzheimer)

Una notte d’amore. Ho dimenticato una notte d’amore. E’ cominciata così, la fine. Io non ricordo di aver dimenticato. Ho riso, quando lui insisteva. “Ascolta, Anna. Sei un’ottima attrice, ma non ho capito dove vuoi arrivare continuando a negare che sabato sei rimasta da me”: questo continuava a ripetere Franco. Era un lunedì mattina.
Mi stavo godendo il primo sole caldo d’aprile seduta ad un tavolino all’aperto in una piazza di Roma. Aspettavo una mia amica, quando lui mi ha chiamata. “Ti sei deciso, finalmente”, gli ho detto. Ero rimasta ad uno screzio che avevamo avuto venerdì. Ci eravamo lasciati con acredine e scontento. “Ma che dici?”, mi ha chiesto lui dopo un attimo non breve di silenzio. “Credevo avessimo risolto tutto sabato sera”. “Sabato sera quando, scusa?”, ho chiesto io curiosa e anche un po’ divertita.
Quel divertimento non è durato a lungo. Franco ha continuato ad insistere. Io ho inventato una scusa assicurando che lo avrei richiamato presto.
Sabato sera io ero andata a mangiare una pizza con la mia amica Grazia, ne ero certa. “Pensa”, ho detto a Grazia quando mi ha raggiunta, “Franco vuole farmi credere che sabato sera sono stata con lui. Gli uomini sono incredibili. Per fortuna ho la prova che ero con te, in pizzeria”. “Ma no, Anna!” ha esclamato ridendo Grazia. “In pizzeria siamo state venerdì. Non ti ricordi che Franco si è arrabbiato perché non avevi risposto alla sua chiamata? Poi sabato siete usciti insieme! Ah, cara mia, la vecchiaia comincia a farsi sentire!”, aveva concluso battendomi una mano sulla spalla. Io e Grazia siamo amiche da sempre, da quando siamo nate, quasi. 50 anni fa.
A come amore, l’ho inseguito tutta la vita. L come libro, ne ho divorati migliaia. Z come “zitto, stia zitto, dottore”. H come “ho paura”. E come “e adesso?”. I come “Io non ci credo”. M come “mio Dio”. E come “ero felice, finalmente”. R come “ricordare”.
Avevo aspettato due giorni, prima di andare dal medico. Avevo cercato mille scuse, mille spiegazioni per non cadere preda del panico. Una in particolare mi aveva convinta più delle altre. Forse avevo bevuto. Sono astemia per scelta da una vita. Basta un goccio e perdo ogni controllo. “Senti Anna, da oggi in poi ti porterò a mangiare pesce ogni giorno. Ultimamente stai diventando una smemorata!”, aveva risposto così Franco, alla mia domanda. Gli avevo chiesto se per caso, per festeggiare e per far pace, mi fossi concessa un bicchiere proibito. Eppure non avevo bevuto. Inoltre, non era la prima volta che, negli ultimi tempi, dimenticavo qualcosa. Almeno così mi dicevano un po’ tutti.
Il medico, all’inizio, mi aveva rassicurata. Mi ero presentata in modo spavaldo, per nascondere l’ansia. Però la recita non è servita. Non ha cambiato la diagnosi, che è arrivata, impietosa. Alzheimer.
All’inizio lo stupore resetta ogni paura. Facevo periodicamente tutti i controlli consigliati. Ecografia, mammografia, pap test. Mai avrei creduto che ad ammalarsi potesse essere la mia proverbiale memoria di ferro. Alzheimer. Non l’ho detto ancora a Grazia. Non l’ho detto a Franco. Non l’ho detto alle mie figlie. In fondo, non l’ho ancora detto neanche a me.
La malattia è ad uno stato larvale, mi ha detto il medico. Molti non si sarebbero mai allertati, per una cosa simile, mi ha spiegato, e ci avrebbero solo riso un po’ su.
Non ho pianto. Non ho voluto sapere quasi nulla, di questa malattia. Ho chiesto al medico del tempo, non molto. Tempo per poter parlare a me stessa. Tempo per noi. Tempo per me e per quella che sarò, senza accorgermene, senza saperlo, forse.
“Si scriva una lettera, signora”, mi ha suggerito il dottore. “Si scriva tutto quello che ha
sempre voluto dirsi e che non si è detta mai. Esca con se stessa, questa sera”.
Ogni volta che il mio pensiero, come quello di tutti, è andato ad una ipotetica tremenda malattia ho sempre immaginato di restare lucida fino all’ultimo istante, ho sempre creduto di poter decidere e scegliere come morire, quale pensiero avere, a chi stringere la mano. Ho sempre avuto la convinzione che avrei avuto paura, ma che avrei affrontato con razionalità anche quei momenti. Invece l’unica cosa che so, adesso, è che devo lasciarmi andare. Adesso che i vuoti sono ancora cosa rara (ma chi può dirlo, in fondo? Sono una persona indipendente che si ritaglia spesso attimi tutti per sé. Quante cose, quante azioni, quanta me ho rimosso senza saperlo?) voglio solo parlarmi. Affidarmi un addio che sappia di vita.
Ho scritto una lettera. L’ho affidata al medico che mi tiene in cura e che continuerà a farlo anche quando chiuderò l’ultima porta al mondo, quando la mia anima non potrà più uscire e nessuno saprà più trovare un modo per entrare. Sceglierà lui il momento giusto per farmela leggere.
“Cara, carissima Anna
ti scrivo oggi con lo strazio di chi ama e deve andar via.
Abbiamo pianto insieme, io e te, per tutte le cose, tutte le persone, tutti gli amori
che abbiamo perduto. Ci siamo accapigliate, mal sopportate, maltrattate una vita intera. Ci siamo sempre date per scontate. Fino alla noia.
Chi era altro da noi era sempre più affascinante, più bello, più desiderabile. Io e te. Abbiamo avuto un dono meraviglioso senza accorgercene quasi mai.
Anna, tesoro.
Non sentirti sola. Sei stata tanto amata. Mamma ci ha amate, e papà. Ci ha amate la nostra casa, il nostro letto, il pigiama che ci teneva al caldo e il cuscino che ha assorbito tutte le nostre lacrime bambine.
Se ci abbia davvero amate qualche uomo non è importante, Anna. E’ stato il discrimine sbagliato di una vita intera: esistere per cercare l’approvazione di chi siamo state convinte di amare. Abbiamo avuto buone amiche, questo sì, questo per fortuna. E abbiamo avuto due bimbe. Quelle minuscole dita, le manine e poi i primi distacchi, le tante paure; oggi sono due donne, serie e serene. Chi l’avrebbe detto, Anna? Siamo state capaci di creare due capolavori, io e te.
Come li porti i capelli, oggi, Anna? Ancora rossi? O sei tornata al tuo nero di quando eri davvero – e non te ne sei accorta mai – la più bella del paese? Oppure hai ceduto ad un bianco candido e naturale, pieno di storia, ricco di vita?
Anna – Anna, Anna, Anna, che bel nome Anna! – la malattia non è una colpa. Non è una punizione. Fa parte della vita, ha un senso, è una prova, un’esperienza. Non avere mai paura Anna, non sentirti sola; anche sciroccate, anche smemorate, anche perse chissà in quali universi, io e te resteremo insieme sempre. Tu non lasciarmi andare, aggrappati ad un profumo, ad un colore, ad una musica. Sono certa che lì ritroverai un brivido, un sorriso, un’emozione. Quello è il luogo solo nostro, una rocca inespugnabile, un regno fatato.
Leggimi ogni volta che vuoi, Anna. Cercami tra queste righe e poi ridi, Anna. Ridi come hai sempre fatto. Ridi e gioca a nascondino con me. Ecco, Anna. E’ un gioco. Siamo tornate
bambine, io e te. Dispettose, attaccabrighe, argento vivo. E’ un gioco bellissimo, Anna. Cercami. Fammi vedere quanto sei brava. Sbrigati, che poi fa sera. Trovami, Anna. Vinci tu, tesoro. Trovami.
Anna, ti prego, portati una mano sul volto. Lo senti? Sono io, che ti accarezzo”.
 di Tiziana Pasetti

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