Una notte
d’amore. Ho dimenticato una notte d’amore. E’ cominciata così,
la fine. Io non ricordo di aver dimenticato. Ho riso, quando lui
insisteva. “Ascolta, Anna. Sei un’ottima attrice, ma non ho
capito dove vuoi arrivare continuando a negare che sabato sei rimasta
da me”: questo continuava a ripetere Franco. Era un lunedì
mattina.
Mi stavo godendo il primo
sole caldo d’aprile seduta ad un tavolino all’aperto in una
piazza di Roma. Aspettavo una mia amica, quando lui mi ha chiamata.
“Ti sei deciso, finalmente”, gli ho detto. Ero rimasta ad uno
screzio che avevamo avuto venerdì. Ci eravamo lasciati con acredine
e scontento. “Ma che dici?”, mi ha chiesto lui dopo un attimo non
breve di silenzio. “Credevo avessimo risolto tutto sabato sera”.
“Sabato sera quando, scusa?”, ho chiesto io curiosa e anche un
po’ divertita.
Quel divertimento non è durato a lungo. Franco ha
continuato ad insistere. Io ho inventato una scusa assicurando che lo
avrei richiamato presto.
Sabato sera io ero andata a mangiare una pizza con
la mia amica Grazia, ne ero certa. “Pensa”, ho detto a Grazia
quando mi ha raggiunta, “Franco vuole farmi credere che sabato sera
sono stata con lui. Gli uomini sono incredibili. Per fortuna ho la
prova che ero con te, in pizzeria”. “Ma no, Anna!” ha esclamato
ridendo Grazia. “In pizzeria siamo state venerdì. Non ti ricordi
che Franco si è arrabbiato perché non avevi risposto alla sua
chiamata? Poi sabato siete usciti insieme! Ah, cara mia, la vecchiaia
comincia a farsi sentire!”, aveva concluso battendomi una mano
sulla spalla. Io e Grazia siamo amiche da sempre, da quando siamo
nate, quasi. 50 anni fa.
A come amore, l’ho inseguito tutta la vita. L come
libro, ne ho divorati migliaia. Z come “zitto, stia zitto,
dottore”. H come “ho paura”. E come “e adesso?”. I come “Io
non ci credo”. M come “mio Dio”. E come “ero felice,
finalmente”. R come “ricordare”.
Avevo aspettato due giorni, prima di andare dal
medico. Avevo cercato mille scuse, mille spiegazioni per non cadere
preda del panico. Una in particolare mi aveva convinta più delle
altre. Forse avevo bevuto. Sono astemia per scelta da una vita. Basta
un goccio e perdo ogni controllo. “Senti Anna, da oggi in poi ti
porterò a mangiare pesce ogni giorno. Ultimamente stai diventando
una smemorata!”, aveva risposto così Franco, alla mia domanda. Gli
avevo chiesto se per caso, per festeggiare e per far pace, mi fossi
concessa un bicchiere proibito. Eppure non avevo bevuto. Inoltre, non
era la prima volta che, negli ultimi tempi, dimenticavo qualcosa.
Almeno così mi dicevano un po’ tutti.
Il medico, all’inizio, mi aveva rassicurata. Mi
ero presentata in modo spavaldo, per nascondere l’ansia. Però la
recita non è servita. Non ha cambiato la diagnosi, che è arrivata,
impietosa. Alzheimer.
All’inizio lo stupore resetta ogni paura. Facevo
periodicamente tutti i controlli consigliati. Ecografia, mammografia,
pap test. Mai avrei creduto che ad ammalarsi potesse essere la mia
proverbiale memoria di ferro. Alzheimer. Non l’ho detto ancora a
Grazia. Non l’ho detto a Franco. Non l’ho detto alle mie figlie.
In fondo, non l’ho ancora detto neanche a me.
La malattia è ad uno stato larvale, mi ha detto il
medico. Molti non si sarebbero mai allertati, per una cosa simile, mi
ha spiegato, e ci avrebbero solo riso un po’ su.
Non ho pianto. Non ho voluto sapere quasi nulla, di
questa malattia. Ho chiesto al medico del tempo, non molto. Tempo per
poter parlare a me stessa. Tempo per noi. Tempo per me e per quella
che sarò, senza accorgermene, senza saperlo, forse.
“Si scriva una lettera, signora”, mi ha
suggerito il dottore. “Si scriva tutto quello che ha
sempre voluto dirsi e che non si è detta mai. Esca
con se stessa, questa sera”.
Ogni volta che il mio pensiero, come quello di
tutti, è andato ad una ipotetica tremenda malattia ho sempre
immaginato di restare lucida fino all’ultimo istante, ho sempre
creduto di poter decidere e scegliere come morire, quale pensiero
avere, a chi stringere la mano. Ho sempre avuto la convinzione che
avrei avuto paura, ma che avrei affrontato con razionalità anche
quei momenti. Invece l’unica cosa che so, adesso, è che devo
lasciarmi andare. Adesso che i vuoti sono ancora cosa rara (ma chi
può dirlo, in fondo? Sono una persona indipendente che si ritaglia
spesso attimi tutti per sé. Quante cose, quante azioni, quanta me ho
rimosso senza saperlo?) voglio solo parlarmi. Affidarmi un addio che
sappia di vita.
Ho scritto una lettera. L’ho affidata al medico
che mi tiene in cura e che continuerà a farlo anche quando chiuderò
l’ultima porta al mondo, quando la mia anima non potrà più uscire
e nessuno saprà più trovare un modo per entrare. Sceglierà lui il
momento giusto per farmela leggere.
—
“Cara, carissima Anna
ti scrivo oggi con lo strazio di chi ama e deve
andar via.
Abbiamo pianto insieme, io e te, per tutte le cose,
tutte le persone, tutti gli amori
che abbiamo perduto. Ci siamo accapigliate, mal
sopportate, maltrattate una vita intera. Ci siamo sempre date per
scontate. Fino alla noia.
Chi era altro da noi era sempre più affascinante,
più bello, più desiderabile. Io e te. Abbiamo avuto un dono
meraviglioso senza accorgercene quasi mai.
Anna, tesoro.
Non sentirti sola. Sei stata tanto amata. Mamma ci
ha amate, e papà. Ci ha amate la nostra casa, il nostro letto, il
pigiama che ci teneva al caldo e il cuscino che ha assorbito tutte le
nostre lacrime bambine.
Se ci abbia davvero amate qualche uomo non è
importante, Anna. E’ stato il discrimine sbagliato di una vita
intera: esistere per cercare l’approvazione di chi siamo state
convinte di amare. Abbiamo avuto buone amiche, questo sì, questo per
fortuna. E abbiamo avuto due bimbe. Quelle minuscole dita, le manine
e poi i primi distacchi, le tante paure; oggi sono due donne, serie e
serene. Chi l’avrebbe detto, Anna? Siamo state capaci di creare due
capolavori, io e te.
Come li porti i capelli, oggi, Anna? Ancora rossi? O
sei tornata al tuo nero di quando eri davvero – e non te ne sei
accorta mai – la più bella del paese? Oppure hai ceduto ad un
bianco candido e naturale, pieno di storia, ricco di vita?
Anna – Anna, Anna, Anna, che bel nome Anna! – la
malattia non è una colpa. Non è una punizione. Fa parte della vita,
ha un senso, è una prova, un’esperienza. Non avere mai paura Anna,
non sentirti sola; anche sciroccate, anche smemorate, anche perse
chissà in quali universi, io e te resteremo insieme sempre. Tu non
lasciarmi andare, aggrappati ad un profumo, ad un colore, ad una
musica. Sono certa che lì ritroverai un brivido, un sorriso,
un’emozione. Quello è il luogo solo nostro, una rocca
inespugnabile, un regno fatato.
Leggimi ogni volta che vuoi, Anna. Cercami tra
queste righe e poi ridi, Anna. Ridi come hai sempre fatto. Ridi e
gioca a nascondino con me. Ecco, Anna. E’ un gioco. Siamo tornate
bambine, io e te. Dispettose, attaccabrighe,
argento vivo. E’ un gioco bellissimo, Anna. Cercami. Fammi vedere
quanto sei brava. Sbrigati, che poi fa sera. Trovami, Anna. Vinci tu,
tesoro. Trovami.
Anna, ti prego, portati una mano sul volto. Lo
senti? Sono io, che ti accarezzo”.
di Tiziana Pasetti
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